Clytie Alexander
Remembering Carlo
I was very fond of Carlo. Bracketed by our differences we understood each other perfectly: Carlo spoke Italian. I spoke English. Carlo was a late night person and got up late. I went to bed early and rose early. Carlo smoked. I do not. Carlo was tall. I am short. But, we both loved good food and abstract painting and in these we had the most joyous and fundamental languages in common. Whenever I arrived at Carlo and Paola’s Milan home, Carlo greeted me, “Hai già mangiato?” My reply, “How’s your work?".
In Milan, after dinner and sometimes during dinner, we'd watch movies on the television. Most often these were American movies dubbed in Italian which was interesting to me because I was trying to learn Italian and interesting to Carlo because he was curious about American cinema. Also when I visited Milan, we looked at the others work murmuring in Italian and English approval over how the other used the subtly nuanced visual language we shared. I admired how Carlo maximised the colour red and we traded work as affirmation of our mutual respect. When he visited New York, even though he wasn’t feeling well, Carlo carne to my studio sitting perfectly still for a full forty minutes as he stared into an umber and dark blue painting the colour of a late evening New York sky. During that same New York sojourn at Paola’s I steamed mussels in his honour.
Once, in the distance on a Street in Milan, I saw Carlo tall and striding as though walking through the countryside, his figure attenuated against the light, his head and shoulders almost disappearing into the sky. As he approached, he included me in the entirety of his rich universe in exactly the same way his paintings simply pro
pose his vision by calling out, “Ciao, Clytie. Hai già mangiato?”.
(New York, 16 aprile 2008)
Renata Asquer
A casa sua
Una finestra immensa
come vasto quadro di mare
un quadro spazioso come finestra.
Al centro tu respiravi piano
folate riarse condite di salino.
Ansioso di aria e di luce
il sorriso estenuato sulle speranze smagliate.
Disteso, il corpo senza peso
nella sua orma imprigionato
sollevavi un poco. A mostrare
le tele accese cangianti
di riverberi e barlumi rigati
di albe e controre e tramonti
arati di memorie preziose.
La nave ti attende alla fonda
Per salpare a fine stagione Con l’ultima luce, l’ultima cicala.
Il tuo corpo in terra salentina
i tuoi sogni nel cielo d’opale.
Valentina Berardinone
Carlo nel suo studio immenso, un grande lucernario, un intrico di tavoli, tele, carte.
Carlo di poche parole, di grandi risate, di grande cuore.
Carlo tenace nella ricerca dei colori rari della sua pittura.
Carlo brusco e solidale sempre.
Carlo grande.
(Milano, 18 marzo 2008)
Roberto Beretta
miei amici pittori. Tanti anni fa e tantissimo tempo insieme. Così importanti nella mia formazione.
Irresponsabili e incoerenti, allegri e intelligenti, teatralmente anticonformisti per nascondere comode normalissime abitudini. Carlo, fra gli altri, il più delicato, il più poetico. Minimalista lui e la sua pittura. Pacato, ma tutt’altro che chiuso in se stesso o schivo. Semplicemente pigro. Di una pigrizia talmente totale e rigorosa da rendere faticoso il praticarla. Di una pigrizia raffinata, capace di semplificare e sintetizzare non solo i segni del suo linguaggio artistico ma anche i comportamenti della vita.
Attento osservatore e grande ascoltatore, per poi restituire il tutto. con una memoria prodigiosa, in fantastici e interminabili racconti.
Parlare, raccontare, nel dialogo dilagava.
Curiosità, necessità di comprendere e poi il piacere di ricordare, di approfondire, di argomentare l'attualità e le prospettive. Quante serate insieme e poi ancora ore in macchina sotto casa, perché non si era mai detto abbastanza, perché eravamo un po’ bevuti e perché il tempo sembrava sempre non bastare. Senza darsi e senza prendersela, sarebbe stato troppo faticoso.
E poi non c’è stato più tempo per davvero.
Con delicatezza ci siamo salutati quell’ultima volta a Otranto. C’erano anche Paola e Kicca.
Lui stanco, io molto emozionato. Un po’ imbarazzati per evitare la banalità del comunicare sentimenti la cui intensità ci impediva di parlare.
Sapevamo che non ci saremmo mai più rivisti e semplicemente come sempre ci siamo capiti.
(Milano, marzo 2008)
Vincenzo Cecchini
Roma, maggio 1967. Siamo a bere un bicchiere da Buccone e la risata di Carlo saltella tra le mie spiagge romagnole e i campi di concentramento di Gastone. Pienza, l’antico sogno di Carlo è il rosone nel quale convergono le nostre tre diverse architetture, le nostre ragnatele colorate e tremolanti. Siamo l’allegra speranza del ragno che ci aspetta e ci cattura, siamo la felicità di questo inverno e della prossima primavera, e ancora dell’estate, e dell’autunno, dell’inverno, della primavera, dell’estate, dell’autunno, dell’inverno, della primavera, dell’estate, dell’autunno, dell’inverno, della primavera, dell’...
(Cattolica, marzo 2008)
Roberto Corchia
Intorno a un pittore
Carlo Cego. Un pittore milanese, ma solo di adozione.
In passato ha girovagato per l’Italia. La sua origine è però cimbra, come lui tiene a dire. Destate lo trovi a Otranto, “Alle Mura”, la sera; con il suo whisky, al tavolino, non lontano dalla Torre Alfonsina.
E poi, la notte, ancora, attorniato soprattutto da tanti ragazzi e ragazze. A loro piace sentirlo parlare. Pochi parlano come lui. Di storie medievali che spesso hanno a che fare col Salento; di libri, di personaggi della cultura italiana del nostro secolo spesso conosciuti direttamente. Quando inizia a raccontare, ogni cosa diviene interessante.
Ha insegnato per anni, ma non è quello che percepisci ad ascoltarlo, quanto una lunga e profonda esperienza di lettura e di ascolto.
Parla raramente delle sue opere, come se quella che svolse fosse una pratica silenziosa, da far restare tale. Parla invece di poeti e di romanzi. Non chiedergli mai: “Hai letto il tale libro? Conosci il tale autore?”. Inizia a parlarne piuttosto e lui, con la sua mu dimessa, senza alcuno sforzo, ti risponderà.
E questa umiltà che lo porta a definire il suo lavoro “indicazioni minime per una rifondazione della pittura”; così come ebbe a definirlo in un incontro estivo a Otranto sul tema “La luce nella pittura”. Quella sera, nella sua illustrazione, partì da Domenico Veneziano e Piero della Francesca, maestri che realizzarono un’aura intorno alle figure nei loro affreschi. Passò poi a parlare dello “sfumato” in Leonardo, dell'emersione del corpo dal buio in Caravaggio, del “tono nella pittura veneziana.
E ancora Vermeer. Turner, gli impressionisti e il “gioco” del pennello, fino all’astrattismo e alla ricerca sempre aperta. Tutto questo senza nessuna inflessione accademica, a volte con ironia, humour. divertimento. Anche i presenti si divertirono. Nella piccola sala intanto tutt'intorno i suoi quadri risuonavano. Quelle strette bande di colore cangiante dove predomina il gioco dei gialli e degli azzurri, quella sera, sembravano vibrare più del solito.
Ed è proprio 1’esperienza che ci fanno vivere i suoi quadri.
Non si fanno notare, quando non ne abbiamo bisogno, non invadono, non “occupano” lo spazio.
A volte però si fanno sentire. Una mattina di marzo, magari, quando la luce è più pura per l’equinozio. Apprezzi i nuovi bagliori che qua e là si accendono, si spostano, si rincorrono quasi su una dimensione lineare.
Nessuna contemplazione, quindi, che tenda a comprendere l’oggetto, ma il colore che non si afferra, che sfugge, che fa tensione, come in una sinfonia, come nella Haffner di Mozart.
Ed è l’esperienza della luce che si ascolta nella lingua del Paradiso di Dante, nelle poesie di Hölderlin.
Rifondazione della pittura, quindi, oltre l’icona.
Rifondazione come ricerca senza mediazioni, in Cego, verso ciò che solo si vuol dire. Non serve a lui fare qualcosa che non sia ciò che è in questa sua linea; magari per compiacenza verso i gusti del pubblico o peggio di chi “educa” il pubblico alle solite cose banali. Carlo Cego è così. E a volte è anche incazzato per questo.
Ma la sua onestà intellettuale è un altro grande pregio che gli viene riconosciuto.
Agnese De Donato
Caro Carlo,
non sai quanto mi fa felice questa importante mostra che renderà giustizia alla tua persona, al tuo valore, alle tue opere. Sarà una grande festa in cui ti saremo tutti vicini come un tempo, quel tempo spensierato e irripetibile degli anni ’60, ricordi? Sai che all’interno di questa grande esposizione ci sarà anche una saletta interamente dedicata alla mostra che facesti nella mia galleria a via Gregoriana?
Avevamo venduto solo pochissimi disegni e, dunque, esposte ci sono quasi tutte le tue stupende carte di quegli anni, compresa la serie delle dieci versioni di piazza del Campo. Nella valigia dei sogni e dei ricordi ho trovato tante cartoline che tu e Azio mi mandavate indirizzando alla “ragazza” di via Ripetta 6. Per dieci anni ti ho visto tutti i giorni, la tua presenza in libreria (al Ferro di Cavallo) era costante, se fossi mancato una volta, avresti dovuto portarmi la giustificazione!
La tua amicizia era una certezza per me. Ma gli anni più intensi del nostro legame sono stati quelli in cui eri mio impiegato a tempo pieno. Uno o due anni, non ricordo bene. Quanto ci siamo divertiti! Ricordo che tutte le mattine trovavo scritto sul registro delle entrate e uscite “50 lire per accattone”, solo dopo parecchio tempo mi resi conto che erano per il tuo caffè. Arrivavo e tu mi facevi trovare il tuo dono quotidiano. Li ho tutti i tuoi messaggini amorosi e li espongo, anche se non fanno parte di quella mostra del ’66. Li espongo perché sono di una grazia e di una bellezza inarrivabili.
Non so cosa ho fatto per meritarmi l’amore che mi portavate tu, Gastone, Antonio, Azio e gli altri. Certo è che io quando penso a voi, ai nostri giorni, ai nostri giochi, alle nostre bevute, sento forte nel cuore un’ondata di felicità, di immensa nostalgia, ma penso anche che siamo stati fortunati a essere uniti da sentimenti così veri, intensi e duraturi. Poi sei andato a Milano, con Gastone. Poi Gastone è morto, un dolore grande per tutti.
L’ultima volta che ti ho visto è stato a Milano, parecchi anni fa. Avevo un impegno quella sera e ci siamo dati appuntamento verso la mezzanotte in quel bar dove normalmente andavi, non ricordo il nome. Abbiamo bevuto e quando il bar chiuse ci prendemmo una bottiglia, grappa o whiskey? Due bicchieri e rimanemmo seduti su una panchina della piazzetta per ore e ore a chiacchierare, a raccontarci degli anni in cui non ci eravamo visti, e a ricordare... ricordare... che indimenticabile nottata!
Ciao Carlo,
Agnese
Agostino Ferrari
Caro Carlo,
non ti nascondo che la tua presenza è ancora così viva nella mia realtà quotidiana che faccio fatica a scrivere queste poche righe, preferirei telefonarti se non sapessi che ti sei spostato da qualche altra parte. Eravamo seduti a sorseggiare un Martini all’aperto al bar di Aldo dentro le mura di Otranto, e tu raccontavi con la tua solita ilare ironia aneddoti su personaggi conosciuti a Roma e a Genova.
Eri vestito di bianco.
Avevi appena fatto una linea che attraversava orizzontalmente tela, una linea piena di tutti i colori dell’iride.
Dicesti: “Questa è la luce più bella, quando il sole è appena tramontato”.
Allora ti ho immaginato mentre dipingevi una linea che attraversava il cielo con tutti i colori che cerano nell’aria di Otranto.
Poi le rondini occuparono lo spazio sopra di noi e una di esse con un colpo d ala molto ardito scese pericolosamente verso il nostro tavolino.
Ci guardammo in faccia e tu col tuo solito sorriso mi dicesti: “Ago. tieni stretto il bicchiere Altrimenti... ”.
In bocca al lupo Carlo.
Agostino
Gianni Giolo
Una linea
Una linea retta. Da un estremo all’altro del foglio. Da destra verso sinistra o... ce lo siamo mai chiesto? Un profilo da cimbro legittimo visto anche di fronte e il sorriso che rivela da sé l’amara conoscenza delle cose.
A Roma, in piazza del Popolo, poi a Milano, Brera. Tchaikowskv, l’Ouverture 1812, con la salva di cannoni che alla fine caccia Napoleone (si può dirigere anche avendo addosso soltanto un paio di calze corte). Carlo Emilio Gadda... Er Buce, er Mascella, er Testademorto... Ettore Pretolini, dio di Roma, la maschera del non senso sopra il volto caustico, acido, abrasivo, cimbrico?
Una matita e una linea retta. Il foglio non la può contenere. Potevamo permetterci, a cena, quasi sempre “lasciando giù” il conto, quel ristorante lussuriosamente chiamato “al piatto di merda”. Affabulazioni. Dalla bocca del cimbro escono storie incredibili, aneddoti, aforismi, frasi cesellate con la grazia del ghirigoro e l’incisività della freccia. Amore dato a dismisura come se al mondo non esistesse altra moneta.
Ogni giorno vissuto come se la morte fosse venuta ieri.
Una linea retta, esiguo grumo dell’infinito. Unica porzione accessibile prò nobis dell’infinito. Quanto fa male. “Esserci” fin dove finisce il foglio.
Oltre il foglio la poesia che pensa se stessa: Carlo Cego.
(Como, 11 novembre 2007)
Paul Klerr
Remembrances (Ricordi)
I giorni tra Cesaretto, Privé, Doc.
Portarti, a te, a casa (arteriosclerosi mia, la strada consolare, mi sono ricordato adesso: Cinecittà).
Parlando di arte, ossia i nostri pensieri, a fare arte.
Per te e me la dimensione poetica personale da tabloid, piccoli disegni 10 x 15 cm.
Ci ha distanziato Milano, perché ho seguito poco i tuoi lavori.
Nel lavoro ambedue single: mai di gruppo.
Paola lacucci
Caro Carlo,
non sai che felicità mi dà leggere questi scritti dei tuoi amici, tutti, che ti sono stati vicini nella vita, e riportano la vita.
Ti ho sognato un giorno, e c’eri, in giro per le stanze, c’era luce e mi sono detta, è vero Carlo è stato via per un po’.
Adesso è così, è come se ci fossi, proprio qui, tutti insieme, tu e gli amici.
Guardavo uno dei quadri con i colori profondi che ho qui, con questa piccola torre d’oro a partire dall’orizzonte. Sono del 1992, li hai fatti qui, in pochissimo tempo, e assomigliano tanto alle cose degli anni ’60. Sono la stessa cosa. Delle torri sull’orizzonte: dice Agnese, è l’architettura.
Guardando l’oro che si scurisce nel tempo e sempre più si scurirà, penso che il tuo lavoro è proprio questo: avviene nel tempo, e cambia, diviene come la vita.
Si trasforma. Come si trasformava la tela al passaggio del colore bagnato; non si sapeva mai cosa sarebbe accaduto: è sempre stata una piccola magia e tu lo dicevi (mi è sempre piaciuto molto vederti lavorare, era una grande calma.)
Come le cartine che hanno sempre popolato i tuoi tavoli: sembravano niente, dei gusci di farfalle (bisognava stare attenti al vento), finché non le stendevi sulla carta bianca e diventavano: la meraviglia.
Così è la tua pittura, una meraviglia dell’accadere, di come avviene, del trasformarsi. Per questo è ancora viva: diviene.
Come la luce che c’è nei tuoi quadri: un raggio di luce è sbucato da dietro un cipresso nella mattina chiarissima nel piccolo cimitero di Otranto, e ho detto questa è la luce della pittura di Carlo, e da allora ti parlo sempre così.
Diviene come la vita.
A presto, ciao Paola
Antonio Mallardi
Avevo girato parecchio per trovarlo. Qualcuno mi aveva detto che aveva una casa a Otranto. Ma non sapevo dove. Era un giorno di luglio di parecchi anni fa. Passavo per Otranto con Jamila, il mio catboat, col quale sarei andato a Fano, a Mathraki, a Cefalonia. Lasciai mio figlio che ancora dormiva in cuccetta dicendogli: “Salgo in paese a cercare un amico che non vedo da tanti anni”. Una volta in paese mi resi conto che non avevo un solo indizio per cercarlo. Me lo dovevo inventare di sana pianta. Entrai nel paese nuovo dall’arco di Porta Idrusa, o quanto meno da quella che accede al giardino di Idrusa. Dentro di me sentivo che era ma avevo anche la sensazione, anzi la certezza che d sarei riuscito, proprio lì mentre attraversavo la Porta che, peraltro, mi ricordava un vecchio libro che avevo letto tanti anni prima, a Roma, quando conobbi Carlo. Forse me lo aveva suggerito lui. Ci sono amicizie nella vita che valgono per sempre, anche se sono durate poco, alcuni mesi, forse un anno. Quella con Carlo era, è una di queste. L’altra fu quella, negli stessi giorni, per Franco Libertucci. Con entrambi mi capitava di passare intere nottate in giro per la città camminando senza uno scopo, se non quello di stare insieme, di parlare, di osservare quel mondo notturno come fossimo degli spettatori. La nostra Roma di quei giorni, di sempre, era peraltro assai piccola, diciamo pure una piccola città. Un quadrilatero che aveva un angolo in piazza del Popolo, un altro a Trinità dei Monti, poi scendeva a via del Corso per via Frattina, quindi di lì al Pantheon, a piazza Navona, campo de’ Fiori, piazza Farnese, piazzetta della Quercia, da Polda, la trattoria dove ci si fermava a bere e a mangiare frugalmente. Questo era il nostro territorio, il nostro periplo che aveva come raccordo centrale, obbligato, il ritorno in via Ripetta, il nostro “quartiere dei lillà”. Tutto quanto restava fuori, salvo rare “uscite” fino a Trastevere, era un’altra città, un’altra Roma che non ci riguardava, in cui eravamo stranieri. Carlo, più giovane di me di parecchi anni, era un compagno taciturno, forse un po’ meno di Libertucci che a volte non parlava per interi giorni. Ma aveva l’arte, la magia dell’ascolto e della parola giusta. Era, già allora, ancor giovanissimo, una persona di straordinaria eleganza. Vestiva sempre come un gran signore, con giacche e cappotti che parevano di sartoria, che vestivano perfettamente il suo lungo corpo dinoccolato. Faceva parte di quei ragazzi che venivano in libreria da Agnese, in via Ripetta, che pareva non avessero altro scopo nella vita che quello di leggere. Ragazzi che a vent’anni avevano già letto tutto. Lui, Azio C., Carlo F. e alcuni altri. Io ero reduce da un kibbutz in Israele in cui mi era parso di poter restare per sempre, ma ci ero rimasto solo un anno, e avevo i calli alle mani per il lavoro nei campi. Li ascoltavo parlare fra loro e capivo perché bisognava leggere Nizan, Camus, Von Doderer, Broch, Rezzori, Celine, Simon, Bataille, Robbe-Grillet, Pasolini, Eco... e mai, ma proprio mai, Cassola, Bassani, Moravia, esecratissimi. Sì, certo, erano un po’ spocchiosetti, professorini, ma anche tanto veri, simpatici, proprio per i loro eccessi giovanili. Ecco, fu Carlo a farmi leggere L’ora di tutti di Maria Corti, scrittrice quasi ottantenne che si era inventata Idrusa e la sua storia, libro appena uscito da Feltrinelli.
E ora io ero lì, nel giardino di Idrusa, che cercavo Carlo. Chiesi di una libreria, ero certo di trovare una dritta, ma non era che un giornalaio e non seppe dirmi nulla. Chiesi a dei vigili urbani, dicendo di un signore, un pittore milanese, anche se Carlo in fondo era veneto, credo di Vicenza. Un uomo alto, elegante, dissi. Mi guardarono stupiti. Qui i forestieri sono tanti, mi risposero. In fine, percorrendo tutto il lungomare, spiando i negozi, le strade, gli incroci, proprio in fondo entrai in un vecchio bar, grande e profondo come certi antichi caffè del Salento dove il sole non entra mai e anche in pieno giorno le luci sono sempre accese. Giunto al grande banco, nel fondo della sala, senza che me ne accorgessi, chiesi un Pernod, forse perché mi ricordavo che in quel vecchio caffè dove c’era una straordinaria esposizione di bottiglie ben in mostra, il Pernod era sempre bene in vista e lo versavano in bicchieri così generosi, con la bocchetta d’acqua accanto e i cubetti di ghiaccio, che meritavano molta considerazione. Fu in quel bar che trovai la risposta alla mia ricerca. Un’anziana e corpulenta signora alla cassa, poco distante dal bancone, mi osservava come si può osservare il solo cliente che a quell’ora di mattina, in un solitario bar di Otranto, si fa un Pernod di quattro dita e tace. Mi voltai verso di lei e le dissi senza esitare: “Lei sa dove abita Carlo
Cego? Sono un suo amico e ho perso l’indirizzo”. Pareva solo che aspettasse la mia domanda, che fosse lì per questo. “Sì, sì, lo conosco benissimo, viene qui abbastanza spesso e beve anche lui il Pernod. Ora è un po’ di giorni che non lo vediamo. Guardi, ritorni al giardino, passi la Porta, vedrà una piazzetta, vada oltre per la strada che scende al porto, la prima stradina sulla destra, in fondo c’è una scala a cielo aperto, vada su, in cima abita il professore, Carlo Cego.” Ci arrivai in un lampo. Era come se mi avesse tracciato una mappa, come se mi portasse per mano, come se sapessi esattamente dove andare, dove svoltare. L’aria era fresca e stimolante, le luci di Otranto, i muri bianchi, il selciato pulito, tutto mi pareva in festa. Stavo per rivedere un amico dopo più di trent’anni.
Salii per quella scala ripida e luminosa che pareva portarmi ne L’azzurro del cielo. Giunto in cima, su un piccolo ballatoio di cianche, trovai una porta sulla sinistra, ma non c’era scritto niente. Improvvisamente percepii un odore molto intenso, non proprio gradevole e, infine, udii il gorgoglio dell’acqua di uno sciacquone. Di fronte c’era un finestrino alto sul muro. Dissi con voce sicura: “Carlo, sei qui! Aprimi”. Dal finestrino mi giunse la sua voce: “Antonio, ma cosa ci fai a Otranto?”.
Spalancò la porta di casa e me lo trovai davanti. Era sempre lo spilungone che avevo lasciato. Con trent’anni di più, qualche capello grigio, ma col sorriso di un uomo che non può, in alcun modo, in alcun momento, non essere gentile, disponibile. Ci abbracciammo ed entrammo in casa. Una casa con camere ampie, luminose come sono le vecchie case del Salento sul mare. Era spoglia, quasi vuota, tutto era in ordine perché c’era poco. La casa essenziale di un uomo che aveva la misura delle cose utili, necessarie, senza nulla che fosse di troppo. Mi disse: “Ti faccio il caffè”. Nella grande cucina ci sedemmo a un vecchio tavolo che era sulla sinistra dove c’erano delle stoviglie con qualcosa che mi pareva il residuo di una cena frugale della sera prima. La cucina mi parve come fosse il cuore della casa. Era assai luminosa, inondata di luce da una finestra in alto. Fu bello parlare in quella casa solitaria, vuota ma pur arredata dai piccoli oggetti familiari che sono il segno di chi ci ha vissuto. Mi parlò del suo lavoro a Milano, a Brera, della cattedra che aveva assunto dopo la morte di Gastone Novelli, mio grande amico di quei giorni lontani a Roma. Di Paola, sua moglie architetto, che non era ancora a Otranto ma a Milano, se non a New York dove lavorava. Dei suoi figli, di tutto quanto si dicono due persone che si rivedono dopo tanti anni. Quindi ci spostammo sul balcone della grande stanza d’ingresso. Ricordo quel bel balcone ampio che si affacciava sulla piazzetta dove ero passato poco prima. Di fronte mi pare ci fossero le antiche mura del paese. In fondo, porta Idrusa, un giornalaio al quale avevo rivolto le mie prime domande. Eravamo lì seduti in un’ombra fresca e molto piacevole con una brezza di maestrale. Mi pareva straordinario ritrovare un vecchio amico ormai milanese nella mia Puglia, in un paese che conoscevo bene da sempre, accanto al mio mare. Carlo ascoltava quanto gli raccontavo. Sorrise quando gli dissi che un Pernod mi aveva tracciato la rotta per casa sua. Ma fu un momento, come quando una nuvola che corre nel vento per un attimo oscura quanto ci è intorno, che sentii, vidi in lui, un’ombra che ci divideva, che creava una distanza. Lui che aveva occhi capaci di sorridere senza parlare mi guardava in un modo che non comprendevo. Ebbi come il timore di aver detto qualcosa che potesse dispiacergli. Non potei fare a meno di chiedergli cosa gli accadeva, cosa stesse avvenendo che potesse così repentinamente bloccargli il viso, portare il suo sguardo lontano, oltre quel piccolo recinto di ombra dove ci eravamo raccolti. Me lo disse con voce ferma, come se in lui ci fosse una rabbia repressa che non conoscevo, che non potevo neanche sospettare, con parole che caddero fisicamente su di me come macigni che precipitano dall’alto di una torre. “Antonio sto morendo, non so quanto mi resta e neanche voglio saperlo. Ma so che è la fine.” Gli chiesi perché, come, dove, cosa mai dicesse. Mi affannai a smentirlo. Lo aggredii insinuando che mentiva, che nulla poteva scalfire Pernigotto, così lo chiamavamo in gioventù, che non recitasse la commedia, che non era quella la ragione per cui ero lì.
Il mio affanno si spense nel silenzio. Lui mi guardava con sguardo gentile, comprensivo, paziente. Restammo ancora lì in silenzio. Gli chiesi semplicemente dove era il suo male. Mi rispose con grande ironia: “In quella parte di me che mi è più cara, che non mi è mai venuta meno, con la quale ho un antico rapporto di amicizia”. Infine mi volle donare dei suoi piccoli lavori. Delle carte cinesi che lui rifiniva, ritoccava con i suoi colori. Li ho qui incorniciati. Sul retro di ognuna c’è una dedica. In una c’è scritto: “Al mio maestro e amico Antonio, 1998”. Ricordava di una nostra scampagnata a Riano, vicino Roma, dove portammo tele e colori, dove io dipinsi l’unico quadro della mia vita e lui non dipinse nulla. Dove finimmo in un’osteria di campagna bevendo insieme un gran bianco dorato per l’intero pomeriggio.
Scendemmo insieme per strada. Lo invitai a venire con me al porto, a imbarcarsi con me per la Grecia, per Itaca. Mi rispose che non poteva. Lì ci separammo. Lo vidi andare via, alto ed elegante, come sempre, lontano, altrove.
Al porto sciolsi l’ormeggio e misi la prua per la punta della Palascia. Lì facemmo vela. Il vento fresco del maestrale investì la barca con tutto il suo vigore e liberò anche me dalla pesante angoscia che mi opprimeva. Sulla prua avevamo i ridenti paesini del Salento: Castro, Tricase, la fine della penisola, Finibus Terrae. Mio figlio mi chiese: “Hai trovato il tuo amico?”. “Sì”, risposi, “sta bene, ci rivedremo”.
Paolo Martellotti
Nell’estate del 1965, quando finalmente ci incontravamo nelle nostre montagne, Carlo, una sera in cantina, ordinò un metro di bianco.
Ci eravamo conosciuti grazie a Mario Seccia una sera del ’63 o del ’64 da Buccone a Roma, ovvero al “cantinone”, dove a quell’epoca ci si incontrava quasi tutte le sere. Avevamo parlato del comune amore per il paese di Dobbiaco nella Val Pusteria: delle montagne gli piaceva il profilo a contatto col cielo, gli piaceva la sua ragazza, che chiamava “la Linda", e i locali dove di sera si ordinava, per l’appunto, un metro di bianco. Gli piaceva il vino ma ancora di più il gesto che poneva sul tavolo i bicchieri a formare quel metro bianco o rosso: un segno preciso che appagava il senso estetico che riempiva la sua vita come la sua pittura. Una pittura dove le favole, gli aneddoti, i gesti abituali della giornata, come le casualità, si trasformavano prima in cronache così distillate da diventare aforismi e poi in figure così semplici da diventare astratte. “Cosa fai Carlo in questo periodo?” “Sto preparando una mostra.” “Grande lavoro, dunque.” “No, per ora sto solo pensando.” Pensando forse a semplici segni che volavano, si componevano e scomponevano saturando le pigre atmosfere di una giornata che aspettava il tardo pomeriggio per cominciare a mettere nel proprio orizzonte Buccone.
Spesso in quelle discontinuità causate dal tempo e dall’affievolirsi della memoria che fa sparire persone e paesi e persino opere d’arte, riappare la piccola collezione di opere che ho avuto in regalo da Carlo Cego. La mia attenzione si posa su Anima come patria che porta la data del 1966, lo stesso periodo della mostra da Agnese De Donato e della serie di disegni dedicati alla Torre del Mangia, poi guardo II volo del ’69 e A Paolo e a suo nonno del ’78.
Quest’ultima non è una dedica ma il titolo che quasi sempre accompagnava i suoi lavori: in basso nove linee come di uno spartito, alternativamente rosse e nere; in alto un segno di gessetto fra due segni di matita, come un orizzonte di luce dorata, racconta alla maniera di Cego dell’eredità del Donadoni, il mio bisnonno pittore, e di una delle sue vecchie scatole di gessi colorati fine Ottocento che ho regalato a Carlo per ringraziarlo del dono di un suo disegno senza titolo.
Quando nel mio soggiorno vedo Sinesio, un lavoro del ’69, mi immagino Carlo che pensa e sogna di Cirene e immagina una geometria sospesa fra sofismi neoplatonici e precoce Medioevo barbarico. Pensieri calmi e lenti comunque, che sorvolano ogni velocità epica o densità tragica e che si srotolano in quella calda e confortante immobilità che facilita la nascita delle idee e poi il momento dell’azione, breve, semplice, intenso, senza alcuna fatica.
Cego incide con una lametta sottilissimi solchi nel cartoncino che percorrono una maglia spaziale dentro cui si generano più o meno probabili geometrie. Poi passa un colore rosso sfumato sulla superficie e il colore penetra nelle incisioni e diventa intenso, portando alla vista, come in una scoperta, il filo di un pensiero che si muove lungo le coordinate di un teatro quasi invisibile. Sinesio, un piccolo capolavoro che saluto spesso aggiungendo i ringraziamenti da parte mia e di mio nonno.
(aprile 2008)
Vittorio Matino
È difficile descrivere o scrivere di un amico artista come Carlo Cego. Carlo, ineffabile raccontatore di storie, forse l’ultimo legittimo erede della tradizione orale omerica, avrebbe del resto preferito alle parole scritte un discorso tra amici, magari intorno a un buon pasto e a un buon vino. Più che di essere spiegato gli sarebbe, penso, piaciuto essere raccontato.
Mi piace, infatti, parlare di lui con amici comuni o persino con chi non l’ha conosciuto, ma scriverne mi crea serie difficoltà non riuscendo a rinchiudere un simile personaggio nella gabbia atona delle parole stampate. Come si può costringere una così lunga e chimerica amicizia in una pagina bianca? Le parole - che lui sapeva usare altrettanto bene dei colori - assumono inevitabilmente un aspetto lapidario e definitivo quando si imprimono sulla carta: scrivendo si perdono il tono, le pause, l’ambiguità e l’intensità del linguaggio orale. Come non ricordare le sue battute, ironiche e auto-ironiche, decapanti, fulminee come un coup de théàtre? Scriverne non potrà mai restituirci lo sguardo sarcastico, la verve, il modo distaccato alla Buster Keaton che facevano di lui un attore di particolare talento.
Nel teatro, dove il testo scritto s’interpreta come uno spartito musicale, sono spesso i silenzi e le pause a dare forza, senso e ritmo alle parole. Carlo amava gli spazi vuoti, a volte solcati da una linea lieve come un soffio multicolore, a volte accesi con una foglia d’oro accolta da uno o due colori al centro di una sottile carta giapponese. Tanto loquace era nella vita, quanto silenzioso era nella sua arte.
La sua scelta accurata dei materiali, impiegati con controllata disinvoltura, era tesa a fare del campo pittorico un luogo etereo dove i colori apparivano come per incanto. Tutto doveva essere leggero, non pesare, non ingombrare. Mi disse un giorno che gli sarebbe piaciuto trasportare una sua mostra personale in tasca nel portafoglio.
Beffardo rispetto ai “rigoristi ideologici a priori” - come diceva lui - obbediva all’essenziale necessità poetica auto-referenziale di un colore giusto al punto giusto, quando la sensibilità conduce il gioco e la cultura visiva la mano. Nel suo reiterare instancabilmente un’immagine, si poteva concentrare sulla rapidità, la precisione e la qualità dell’esecuzione che diventavano, come per i maestri orientali, il vero “soggetto” dell’opera.
Fisicamente mi ricordava per certi aspetti Arshile Gorky, alto, baffuto e dinoccolato, con la stessa velata malinconia, accentuata in Carlo dalle sue origini venete austro-ungariche. Attraverso le sue assidue letture si era avvicinato alla cultura dei protagonisti della Secessione viennese e ne condivideva sia gli umori inquieti che il gusto sofisticato. Mi piace anche pensare che il suo fraterno sodalizio con Gastone Novelli si rifacesse alle comuni radici mitteleuropee.
Carlo aveva orrore della competizione: alle luci della ribalta preferiva l’ombra discreta dei caffè o l’ombra lunga della notte. Troppo raffinato per il nostro tempo, troppo schivo, troppo colto/troppo sensibile. Così, in punta di piedi ha attraversato la scena artistica e infine scavalcato la linea d’ombra, lasciandoci in retaggio un’opera originale ancora tutta da scoprire e un ricordo leggero, soave, lievemente profumato di malto e di zagare.
(aprile 2008)
Maria Teresa Olcese
Dovrei ritrovare l’atmosfera degli anni ’60 per parlare di Carlo Cego: il futuro pieno di promesse, nell’aria eventi che accomunavano giovani di un’Europa che sentivamo nostra. Teatro, poesia, letteratura, gallerie d’arte, case editrici, un unico fermento che legava Milano, Londra, Parigi, Roma e New York, che noi consideravamo un pezzo d’Europa dall’altra parte dell’oceano. Carlo arrivava da Roma in compagnia di amici, si viveva nelle case di tutti, l’imperativo categorico era lasciare la casa paterna, il mondo ci era amico, eravamo noi il mondo.
Carlo era alto e sottile. Il suo profilo esaltava un naso importante. Baffi discreti mitigavano la sua estrema vulnerabilità. Carlo dipingeva acquerelli; erano cieli di azzurri sovrapposti, ritagliati e scambiati, Amalasunte fragili come aquiloni a vagare in quell’azzurro o tralci di fiori di glicine come palpiti di violetto chiaro. Le chiamava Amalasunte le sue Lune, come quelle che Licini aveva già disegnato in vasti cieli cobalto.
Carlo Cego usava dimensioni minime per raccontare la sua poesia. I suoi quadri più grandi erano formati da quattro tele più piccole montate insieme, ma preferiva cimentarsi con la carta e l’acquerello. La carta più raffinata e gli acquerelli più pregiati. Carlo aveva un buon profumo, quello di un cavallo dopo la corsa. Carlo amava in modo assoluto ed esplodeva in furiose ingiurie negli spazi rosati, tirati a due tonalità su carta Fabriano. Un giorno disegnò anche un autoritratto, l’unico: era la sua bella testa vista di profilo, ma decollata e stillante sangue; la mia mano la teneva alta. Io ero vestita con il manto imperioso della Salomè di Beardsley.
Carlo Cego aveva legami forti, profondi con i suoi amici e con le donne che aveva amato. Era un amico a cui non si poteva rinunciare: il libro che ti portava in regalo era sempre una lettura indispensabile, le scelte degli autori delle vere scoperte; allora i librai conoscevano i libri che vendevano, e Carlo bivaccava nelle librerie amiche.
Mi costa fatica parlare di Carlo Cego, mi costa fatica ricordare un mondo dal quale sono uscita in cerca di concretezza. Ma nulla è più concreto della sintesi poetica delle linee tracciate da un pittore sulla carta di Fabriano.
Elio Paiano
Quando si naviga, talvolta, la presenza invisibile della costa è annunciata dal vento che trasporta un insieme di odori, sapori, suoni e sensazioni che la descrivono. Così i colori del luogo vengono alla mente attraverso gli altri sensi e l’immagine che si forma è, talvolta, più nitida di quella reale. Carlo Cego era così, come uno di quei venti che dall’interno annunciano storie e presenze, trasportano suoni, promettono colori. Da lui venivano racconti e narrazioni, riflessioni e battute mai scontate e banali. E Carlo era anche l’estate di Otranto, annunciata dai giorni del solstizio, dal sole caldo, dal colore del mare e dalla sua presenza tra le mura del borgo antico. È ancora lì Carlo Cego, in quelle pietre che mutano umore a seconda della luce, in quei cieli altissimi “così alti da trasformare un albero in un filo d’erba” nel vento che trasporta albe e tramonti, nelle notti stellate sui bastioni a picco sul mare. Da tutto ciò Carlo tirava fuori essenze sotto forma di luce e colore, quasi fossero “fotografie” di storie e sentimenti, fissati per sempre in un attimo particolare, in uno speciale momento. I racconti di Carlo fluivano lenti, padroni delle notti idruntine e ti venivano incontro per avvolgerti totalmente. Storie e microstorie, grandi eventi, personaggi, poeti e artisti, momenti particolari degni di essere narrati e piccoli episodi visti da un’inquadratura speciale divenivano, grazie a Carlo, un unicum affascinante.
Ci sono uomini che sanno narrare, lo fanno magari attraverso le parole, le immagini, i suoni. Carlo Cego era in grado di farlo attraverso i colori. A quel punto, ritornavano ad avere un senso tutti i discorsi interrotti, quelle discussioni che iniziavano nel modo normale della conversazione tra gli uomini per poi proseguire in una lingua diversa, la lingua degli uomini di là, quella perduta per sempre che ha dato origine a tutte le altre.
Le mani sul bicchiere, l’accensione della “mentina”, le risate, il bianco dei vestiti, gli sguardi, l’ironia, la fiaba, il racconto, l’aneddoto e la riflessione profonda, Carlo era un vortice in grado di catturare l’ascoltatore per intere giornate.
Talvolta, seduto ai tavoli dei bar del centro storico, davanti alle antiche fortificazioni, oppure sulla Torre di Portaterra, al lavoro tra i suoi colori, con la luce del tramonto acquistava un’eleganza quasi sovrannaturale, una grazia estrema in grado di ricordare quei dipinti di druidi o di “monaci sapientissimi” che ci sono stati tramandati dal Medioevo.
Così, nei suoi lavori, senza interventi digitali, le luci prendevano strade in grado di far rivivere albe e tramonti, notti stellate, solstizi ed equinozi, luoghi reali e immaginari.
Ancora oggi, immagino che i cieli di Carlo siano alti, molto più alti di quelli a cui si è abituati, così alti da far sembrare un albero piccolo ed esile come un filo d’erba.
Luciana Pernigotto Cego
Gli anni vissuti a Dobbiaco sono stati i più belli del mio rapporto con Carlo. All’inizio dell’estate arrivava da Roma e trascorreva con me, i miei bambini, mio marito e mamma Giacinta qualche mese. Arrivava anche un amico di passaggio che si fermava un po’ di giorni per proseguire poi verso nord o sud. Sempre alla ricerca di un percorso o di un luogo che aveva stimolato la sua curiosità e interesse.
Un’estate arrivò Paul e anche noi andammo a scoprire i luoghi di Mahler. Allora, nei primi anni ’60, non era così presente nei concerti e a Dobbiaco, che adesso ogni luglio gli dedica un festival, nessuno ne parlava. Andammo a maso Trenker, alla casetta nel bosco dove compose la Nona sinfonia e II Canto della Terra. Tutto era così semplice e modesto e noi eravamo giovani, sereni, fiduciosi. Negli anni successivi, Carlo era a Milano, Franca a Roma, io a Bolzano. Ci si incontrava, ma di rado e per poche ore, qualche volta a Natale e, con il passare degli anni, in occasioni tristi.
Ci sentivamo al telefono. Carlo usava un lessico familiare e a volte bastava una parola per risvegliare un mondo di ricordi, per farti sentire che niente era cambiato tra noi, che c’era l’affetto di sempre. Aveva abbandonato l’Alto Adige, i monti, per andare verso il mare, desiderio di una luce nuova, di spazi aperti. A Otranto aveva trovato un po’ di quel candore e calore che altrove gli era stato negato.
Angelo Pogliani
L’amore è Cego
Carlo che dice: non sussiste il problema, dei quadri che ho fatto son rossi, o dicono neri? A me non importa, lui dice, convinto di un solo colore, mi scappa però l’io dipingere, e tutto diventa per forza un arcobaleno.
Carlo che dice: ascoltami bene, il Veneto non c’entra, la luce è un mito necessario, non è la banalità della tradizione, è che io sono l’ultimo dei Cimbri.
Carlo che dice: anch’io mi sposo, chi credi di essere, o brutto pirlosofo. Per buona sorte interviene San Culo e Bruno Bianco (paciagrup in lingua, sarto in italiano) risolve: la vigogna antracite per l’inverno del ponte di Rialto, il lino bianco per l’estate romana.
Carlo che dice: basta con le zuppe inscatolate e le Marylin incorporate dentro le cornici, non mi piacciono i sassofoni aggiustati e i violini ancora in attesa di restauro.
M’incanto davanti a Klee, Licini, Giorgione e Raffaello, gente normale che i quadri li dipinge a mano.
Amo le donne, più di quanto loro impazziscono per me.
L’amore è Cego.
Emilio Puglielli
Con Carlo
Verso la metà degli anni ’50, dopo la scuola, all’età di circa quindici anni, io e Carlo ce ne andavamo qualche volta sull’antica via Appia con uno zaino capiente per sistemarvi un blocco da disegno, inchiostri, matite, pastelli a cera, un berretto per lavorare al sole, panini e un fiasco di vino. Di questo periodo conservo un mio disegno a inchiostro nero che, meglio di una fotografia, esprime una intenzionalità selettiva nei confronti delle figure del paesaggio romano e una apprezzabile freschezza. È un disegno segnato tuttavia da alcune ingenuità di espressione come, ad esempio, la presenza di segni neri e spessi verso l’orizzonte che ne alterano involontariamente una naturale visione prospettica. Carlo, invece, disegnava una specie di costellazione di segni leggeri e già coerenti in mezzo ai quali si potevano rintracciare piccoli casali, filari di cipressi, sentieri e figure. Consideravamo allora le cose dell’arte come assolutamente importanti, anche se il nostro punto di vista era ancora incerto e in sostanza naturalistico e per il quale ogni nostro agire futuro non avrebbe potuto prescindere da un autentico contatto con i segni e la luce speciale della campagna, degli acquedotti e dei monumenti funebri dei grandi personaggi romani. Naturalmente, a distanza di tanti anni, quei monumenti, nella loro icasticità e nella loro essenza, hanno largamente interagito con la nostra successiva formazione critica e poetica, collocandosi poi nella posizione più corrispondente al senso vero della loro identificazione storica e artistica.
Dopo pochi anni, Carlo decise per la pittura e io per l’architettura, ciò che non costituì motivo di qualche distanza, se si tiene conto dell’orizzonte dei nostri interessi e dei miei insegnanti (Afro, Franchina, Pietro Lombardi). Così, inaugurammo la nostra iniziazione insieme ai nuovi amici M. Seccia, F. Petrone, V. Zeichen. F. Purini, P. Klerr, M. Aste, E. Tolve, P. Cotani, P. Panza, M. Coccia, C. Morales, V. Cecchini, E. Sordini, E. Villa, P. Ciampi e altri ineffabili personaggi di una lunga lista di frequentatori del Privé di via della Penna, a contatto con gli artisti romani e con il mondo della cultura italiana: iniziazione documentata in questo libro dalle testimonianze dei nostri amici e, ancora, da Agnese De Donato. Con Carlo, divoratore di Hammet, Conrad, Gadda e poi Borges, il tempo trascorreva, chiunque potrà confermarlo, a grande velocità, e della sua calma e umoristica narrazione, specchio della sua calma rappresentazione figurativa, non si era mai sazi. Alla partenza di Carlo per Milano tutti noi provammo il disagio insopprimibile della sua lontananza e la gelosia per i suoi nuovi e meravigliosi amici milanesi: da Gastone Novelli, che in definitiva ce lo aveva rubato con la forza, a Emilio Pogliani, A. Ferrari, F. Villa, il Vigile, P. Cerri, al Giamaica e poi al Tencit e a tanti altri testimoni delle successive, raffinate mosse sulle figure della forma e sugli enigmi della pittura. Così, come ricorda A. Schnitzler: “L’umorista passeggia nell’immensità”.
Franco Purini
Parlare con Carlo
Durante i lunghi scambi di idee sull’arte che avevo con Carlo Cego nei primi anni sessanta - discussioni per lo più mattutine, ma anche serali e notturne - egli tornava frequentemente sui nomi di Max Klinger, Gustav Klimt, Osvaldo Licini, Paul Klee, Gastone Novelli. Questi artisti costituivano un suo Pantheon ideale, un circolo elettivo dal quale traeva costantemente temi e motivi per la sua ricerca. Con Novelli, che allora frequentavamo quotidianamente, il dialogo era ovviamente diretto, intenso e ravvicinato. L’ermeticità che pervadeva i suoi elenchi e la suggestione delle narrazioni che animavano le sue tele facevano sì che egli rappresentasse per Carlo l’anello di congiunzione vivente tra quelle sue lontane radici e la sperimentazione che aveva intrapreso. Conversatore magistrale, ironico ma mai disincantato, anzi freddamente passionale, come avviene spesso a chi è nato nel Nord, capace di imprevedibili diversioni discorsive, nelle quali aveva un posto di rilievo la ciclica evocazione delle sue erode, splendenti all’alba e al tramonto come diamanti, Carlo era un compositore puro, che parlava con ispirata sapienza dalla magica alleanza tra la linea, per lui il centro stesso dell’espressione artistica, e il colore. Nemico di ogni retorica, da quello del gesto a quella della profondità concettuale, avverso a ogni enfasi contenutistica, distante da qualsiasi eccesso polemico e dalla stessa necessità di appartenere a uno schieramento artistico preciso, egli era interessato solo al modo con il quale - in una misteriosa alchimia di elementi rari e preziosi, nei quali si avvertiva un misterioso sapore di Oriente, tra Bisanzio e Vienna - costruire la forma. Un costruire essenziale sospeso tra il mosaico e l’icona, poeticamente rigoroso, esemplare per la superiore economia dei mezzi impiegati. C’è da ricordare che per un compositore puro il problema da risolvere è quello della corporeità dell’opera, una presenza materica che può velare o nascondere del tutto l’idea della forma. Si tratterà allora di rendere tale corporeità la meno evidente possibile, spingendosi verso i rarefatti orizzonti del Yimmateriale. Strategia che Carlo ha perseguito in tutta la sua esperienza di artista dando vita a una scrittura pittorica dal carattere assoluto, nel quale è avvertibile una forte matrice spiritualista. Quelle lontane discussioni, che avevano come scene fisse la libreria Al Ferro di Cavallo di Agnese De Donato, varie trattorie e numerosi bar del Tridente, trovarono un’eco in un breve scritto sul ciclo senese della Torre del Mangia, commissionatomi, su indicazione dello stesso Carlo, da Leonardo Sinisgalli per “La botte e il violino”, la rivista che l’autore di Furor mathematicus dirigeva allora. In realtà, quegli scambi di idee sull’arte continuano ancora tutte le volte, e non sono poche, che la parola composizione attraversa, per il lavoro di architetto che svolgo, la mia mente e la mia immaginazione. Sono convinto che questo colloquio silenzioso non è solo il modo di trasformare un’assenza in una presenza. Esso non è altro che la continuità dell’arte, che sa attraversare le nostre esistenze dando ad esse una reciproca necessità e una qualche apparenza di immortalità.
(Roma, 1° aprile 2008)
Pino Rabolini
Carlo
Che il cielo di sera fosse simile al cobalto e che le rondini, con il loro garrire, volteggiassero numerose fuori le mura era scontato. Come scontato era il Lagavulin “binocolo” per Carlo e il Ballantine’s “con ghiaccio” per me.
Consuetudine limitata a poche sere nell’incanto di una Otranto sospesa nell’estate. Un’amicizia forte di alcune affinità, di stima reciproca e della comune capacità di sorridere degli aspetti negativi della vita.
Abile narratore, Carlo, con parole colte e raffinate, volava con ironia al di sopra delle vicissitudini, alimentando con delicatezza la sua creatività.
Carlo artista, Carlo amico.
Mi piace ricordarlo così, anche perché nell’arte come nell’amicizia nulla è scontato.
Umberto Riva
“Carlo doveva essere friulano, ma avrebbe potuto essere anche inglese per il suo senso dello humour.”
Alto, forse un poco dinoccolato.
L’essere scanzonato era la sua forma più esteriore per nascondere
il suo disagio rispetto all’owietà del mondo.
Colto, faceva sempre riferimento ai suoi autori.
Lo penso fondamentalmente timido; questo spiega in parte la sua pittura così poco roboante, fatta di tratti brevi, fatta di segni. Una pittura reticente e non ostentata.
Vorrei anche ricordare la madre Giacinta che Carlo spesso menzionava come alta fonte di saggezza.
(aprile 2008)
Mario Seccia
Caro Carlo,
non posso e non so esprimermi o cimentarmi in giudizi critici o esplicativi sulle ragioni delle tue opere; è vero, abbiamo passato ore e ore a teorizzare, ma non è più il tempo dell’insolenza giovanile: io, almeno, non devo più trovare giustificazioni sul perché una cosa mi piaccia o no, e vorrei dirti che le tue cose mi hanno sempre stimolato e mi sono sempre piaciute, e molto, e ciò mi basta e ti basti.
Ti scrivo solo per rammemorare, senza nessun altro scopo né nostalgie, ché la nostalgia comincia ad apparirmi come l’anticamera dell’impotenza, se non fisica, mentale.
Per rammemorare, dunque, quella parte della nostra esistenza vissuta insieme in questa città; al nostro modo di carezzarla e sedurla con il nostro vagabondare curioso fino a tarda notte, indagando le sue pieghe intime e nascoste; dalle osterie, allora ancora numerose in centro storico, con i muri saporiti come le pietanze popolari che vi si servivano a “nano” prezzi (oggi sostituite con boutique, le cui vetrine propongono improbabili capi di abbigliamento, scarpe incredibilmente appuntite che farebbero invidia all’iconografia otto-novecentesca dei folletti delle fiabe e abiti che sarebbero stati indossati solo da qualche rara esibizionista fuori di testa), ai suoi monumenti nascosti, quasi sconosciuti e poco curati e, forse anche per questo, pervasi da una semioscurità per iniziati... Ci apparivano così, suggestivi e unici, e divenuti ormai “gastronomia monumentale” per fameliche bocche turistiche.
Sei sempre stato un lettore accanito, tra l’altro, di miti e leggende dai quali traesti ispirazione per una serie di disegni. Ricordo con particolare piacere quello intorno all’origine della fontana dell'acqua Vergine e quello sull’accecamento del Mancia. Chissà dove si trovano ora. Questa tua grande capacità di racconto attraverso il disegno era pari alla tua qualità di “raccontiere”, quando imbastivi storie intorno ai “matti” dei luoghi della tua prima gioventù, che amavi condire con esilaranti inflessioni venete e con tali varietà mimetiche, attraendo la nostra attenzione come fossimo bambini suggestionati e attenti a un racconto fiabesco.
Poi partisti per Milano; i nostri incontri non furono più così assidui. Ricordo, comunque, la felicità, ogniqualvolta mi accingevo a raggiungere la tua nuova città, che mi coglieva al pensiero di godere nella tua casa, con Paola e i tuoi due figli, della tua ospitalità. Poi solo notizie e racconti di amici comuni, come l’ultimo che mi fece Anna, a testimonianza della tua gentilezza e sensibilità: un giorno era lì, a via Castelfidardo, curiosava tra le belle vetrine di Umberto Riva, cercava qualche mostra di Moschini, non so; sei apparso tu, non sapevi chi fosse, lei intimidita disse: “Sono la moglie di Mario Seccia”. Tu la accogliesti come un’amica di sempre. Le regalasti due piccole cose. So che avete parlato di noi, tra una sigaretta e l’altra. Poi Anna andò via. Credo che tu non abbia mai saputo il suo nome.
Ciao, tuo Mario
Alessandra Sorsoli
Lo zio ribelle, fuori dagli schemi, dalla vita un po’ sregolata, eppure così coerente, pulita, onesta.
Lo zio fine intellettuale, ma mai arrogante o saccente. Lo zio affabulatore che ascoltavo incantata, rapita, quando raccontava dei suoi incontri, delle sue letture, della sua arte.
Lo zio con tanti amici che, in certi giorni di festa, riempivano la nostra casa con la loro giovane stravaganza, la loro esuberante allegria.
Lo zio che ho scoperto essere padre paziente e comprensivo, capace di educare con ironia, senso di libertà e tolleranza.
Ho il grande rimpianto che i miei figli non ti abbiano conosciuto e che non portino nella loro anima il segno che hai lasciato nella mia. Anche per questo sono felice di questa bella mostra: perché i miei ragazzi - Carlo e Francesca - ti possano conoscere attraverso i colori e la luce delle tue opere e perché possano conservare un ricordo di te grazie alle parole di chi ti ha voluto bene, dei tuoi amici più cari.
Con affetto, Chicca
"E! me core” - il mio cuore - così chiamava, mamma Giacinta, Carlo. E in queste semplici parole è racchiusa l’essenza del loro rapporto. Carlo, il figlio più piccolo, da proteggere, nato durante quando la vita era segnata dalle privazioni, dalla paura.
Giacinta era la MAMMA dal corpo grande, forte, morbido, accogliente, rifugio sicuro dai mali del mondo; nel suo sguardo c’era la gioia, il piacere di donarsi, nei suoi gesti la mitezza, la calma di un’esistenza dedicata ai suoi affetti.
Il piacere del buon cibo, Carlo lo ha appreso alla tavola di casa: piatti semplici, della tradizione veneta, preparati con cura meticolosa, che Carlo si divertiva talvolta a impreziosire, inventando nomi degni del più raffinato menù. Così anche un modesto baccalà alla vicentina, si trasformava in un prelibatissimo “pesce veloce del Baltico con pasticcio di mais”.
La domenica, la casa di Roma, diveniva luogo di incontro: figli, nipoti, amici, parenti, tutti a godere di quei profumi, di quei sapori, di quel caldo, generoso abbraccio con cui Giacinta tutti avvolgeva.
Diventata nonna, Giacinta, si era caricata di nuova energia, di nuovo slancio e fiducia nel futuro. Alessandra e Marco e poi la piccola Giacinta e Francesco sono stati i privilegiati destinatari del suo infinito amore, della sua paziente comprensione, della sua incondizionata disponibilità.
Si dice che con la vecchiaia ci s’indurisca, ci s'inasprisca; Giacinta aveva saputo conservare la dolcezza, il candore, la soavità che solitamente sono appannaggio dell’età giovanile. Amava stare in compagnia di bambini e ragazzi, le piaceva inventare giochi, cantare, raccontare episodi della sua vita passata, di quando, anche lei ragazza, scendeva intrepida con gli sci dai monti vicino a Cerealto.
Giacinta, il calore. Carlo, la luce. Due elementi complementari, indissolubili. Adesso sono un solo cuore.
Franca, sorella maggiore di dieci anni, è stata per Carlo sorella-madre, sempre affettuosa, comprensiva, presente con attenta sollecitudine e discrezione nei momenti difficili.
Ora, quando parla di Carlo, ritorna a episodi di quand’era bambino, ragazzo; ricorda l’ultima serena, ma ingannevole estate trascorsa insieme a Otranto.
Un modo di difendersi, di allontanare il dolore, la malattia e l’angoscia di interminabili giorni senza luce.
Emiliano Tolve
A Carlo
(.chiedendo perdono)
Adesso che sei terra di fermento dimori in tavola cuspidata mano destra di eroico sospiro, che addensa carta sfrangiata e regala brindisi tintinnanti dove non ha eco l’enfasi (grave il dito segnala il sentiero segreto).
Gesto stringato da timido candore dentro coriandoli ligi risoluti al decollo per mutarsi in lancio di miele nuvoloso monito che rasserena e purga tossine d’arrampico.
Chi frequenta il sé-stesso è cieco d’altri e d’altri è stato
Il tuo traguardo rapinato dallo sgarbo screanzato
spalle superbe d’artisti tossiscono la vergogna del loro esserci
e il rossore trilla e li scaraventa nella matassa del sopruso
il mediocre vincente soltanto è spurio vincitore fa pulizia etnica e la chiama installazione.
Ti si conserva come creta antica, gemma che sfaccetta in concavo bagliore e allerta chi scorda il “respiro del silenzio”
(Paul Klee ci perdona di averlo letto).
2
Altre vittorie sbocciano davanti al mare che ti nuota
e onde lisce adagiano concime d’anima sparso.
Quel libro di Cummings in regalo fa piroette d’arguzia
si sfoga in confessioni di speranza e mi osserva
dallo scrigno interrogando le sue stesse parole
parole d’orgoglio aperto, cristallo di silenzio.
Ora che il mio muro ti ospita continui a produrre curiosi riccioli d’allerta – rinascimento di mondo –
protetti da dignità ch’è monca d’ossido.
Quando sarai più grande le pupille del globo
sgraneranno clamore e si ascolterà il cigolio aspro
della cataratta che ha negato lealtà alla visione
(e concesso al tronfio il trionfo).
Dammi per cortesia un cenno di ricevuta. Ciao. A presto.
Valentino Zeichen
In un’atmosfera resa magica da una leggera brezza alcolica dei fiati, Carlo raccontò agli amici sequenze fantastiche, dipingendo celebri assedi del tempo ingannevole e carnivoro, così regalò alla nostra stoltezza il seguente episodio cifrato: “Maniaci d’un estetico ordine cavalleresco assaltarono il tempio di Passtum e ne deviarono l’armonia numerica lineare, mettendo le giarrettiere alle colonne, e negli elastici penduli e oscillanti riconobbero che marcavano le circolarità delle gambe di tutti i templi antichi”.
E noi, colti da capogiro vertiginoso che metteva a rischio le nostre idee fisse che uscivano dalle orbite, chiedemmo una tregua all’irresistibile umorismo di Carlo. Egli ci invitò a un week end metafisico nell’invariabilità dell’avverbio. Le sue fluviali forme pittoriche travolsero le nostre limitate immaginazioni, proiettandoci in una quarta dimensione; con le sue composizioni sintetizzò gli ibridi avverbi di tempo e luogo, deliziandoci con la sua ironia. In un giorno estivo, in treno, Carlo incontrò il poeta Luigi Ballerini, che vive a New York. Di questi lesse compiaciuto alcuni audaci poemi sperimentali. Con precisione chirurgica suggerì anche un paio di modifiche alla punteggiatura di un poema. Il poeta arrossì per il caldo. Con la grazia che gli era propria, Carlo raccontò a Luigi: “All’amico Valentino correggevo la punteggiatura delle poesie; pensa, mi si è scucito un vestito per tutti i punti e le virgole che ho messo alle poesie di Zeichen”.