Donato Caroppo
Secondo me era un buon pittore e gli piaceva dipingere. Mi ricordo che alla masseria di Mimmino De Santis andava a lavorare, in ogni quadro c’era una definizione e i colori erano un contrasto che era difficile da capire. L’ultimo che mi ha regalato mi ha lasciato molto perplesso. Passaggi, c’erano molti passaggi, difficili da comprendere e solo chi gli stava attorno, chi ha vissuto - come io con lui - chi lo frequentava di più, capiva cosa voleva esprimere. Ultimamente ha dipinto dei quadri bellissimi. C’era un giallo, ed era un’opera per Monica, c’era un contrasto che soltanto a guardarlo ti dava il senso dei cambiamenti della vita Dico la verità: come artista erano in pochi a conoscerlo e forse dopo la morte molti hanno capito chi fosse veramente.
La vita per lui era un passaggio e in molti quadri era disegnata, per chi lo capiva, anche la morte.
Questo è quello che posso dire sull’artista. Pio c’era l’uomo, che amava molto Otranto (uno dei primi - con la sua cultura - a dare una mano agli amministratori per valorizzare la città e soprattutto per restaurare le mura. Era un buongustaio, da molti anni veniva a cena sempre da noi (Donato e Teresa) con Agostino Ferrari e Bruno Bianco, perché amava la nostra cucina e in particolare i peperoni fritti. Ricordo le cene fatte con Antoine e Antonello. Ultimamente, prima di sentirsi male, nel periodo di Pasqua venne a casa mia. Andammo a comprare un po’ di formaggio e delle fave fresche, un buon bicchiere di vino, mi ringraziò tanto e mi disse: “Mi hai fatto felice”. Questa è la verità. Questo è un passaggio della vita insieme a Carlo Cego.
Otranto 14 luglio 2010
Arturo Izzo
Comunque la mettesse, Carlo attirava su di sé grandi quantità di affetto da tutti. Prova di questo nel '65 circa, un giorno in Piazza Corvetto a Genova, città in cui eravamo tenuti in ostaggio dal lavorare nel Teatro Stabile (che trattò molto non bene Carlo). Era tempo dei capelli un po’ lunghi: divisa politico/poetica del periodo. Carlo, seduto ai giardinetti, fu avvicinato da alcuni tipi che ostentavano un fare minaccioso, chiaramente di destra, con atteggiamento intimidatorio.
Carlo gli dice: ... ma cosa volete mai da me ... andate via che adesso arrivano i miei amici...andate via...
In effetti in quel momento arrivarono molti, ma tanti ragazzi "normali"; erano gli "amici" di Carlo, i ragazzi del quartiere con cui Carlo si intratteneva un po' nelle giornate passate, come tanti, io compreso attorno al teatro.
Erano ragazzi della Genova popolare ed autentica, semplici e solidali, sinceri e democratici.
Il rapporto di forza era chiarissimo.
Il manipolo di giovani di destra scomparve in un attimo.
Carlo, serafico disteso e soddisfatto, continuò a fumare la sua immancabile sigaretta.
Nel Teatrino di Pazza Marsala si vide la sua splendida scenografia che fece per Mario Ricci (L’“Abaco”) Il “Sacrificio Edilizio”. Sei grandi, grandi cubi grigi sulle facce dei quali erano figure e simboli; gli attori, nell'azione recitante, muovevano, componevano e scomponevano figure d'insieme formate dall'accostamento delle facce dei cubi...
Gli ultimi incontri con Carlo, a Milano. Infine una telefonata – l’ultima – in ospedale.
Ha lasciato molto della sua saggezza montanara a tutti noi che abbiamo condiviso con lui passaggi critici dell'esistenza, chi più chi meno appesi ad una visione
colpevolmente idealista dell'esistenza.
Di Carlo ancora oggi, quando ci si ritrova si parla, lo ricordiamo, tardivo "esempio" di come affrontare passaggi ardui momenti complicati...
ciao e grazie...
Lunigiana 2009
Alina Kalczynska
Carlo Cego aveva la rara qualità di interessarsi del lavoro di altri artisti, e di essere sempre disponibile. Questo creava la fiducia e complicità.
Erano tante le cose che ci univano senza necessità di nominarle. Sapevamo che la luce di Otranto era un dono di ogni giorno, e poi questa luce queste atmosfere diventavano nei suoi quadri trasparenze, sovrapposizioni, lampi, riflessi.
Per lui dipingere era anche una gioia, un colloquio con i colori, li lasciava liberi, accettava il caso, la sorpresa – per essere liberi di scoprire qualcosa che non si conosce.
Io ho un bellissimo suo acquarello, che guardo ogni giorno (non ha titolo, ma potrebbe essere un menhir, una scia di luce).
Carlo mi ha permesso di scegliere fra cinquanta lavori. Questo disegno sapevo di amarlo per sempre, anche perché questo dono era accompagnato dalle sue parole ”sono contento che lo abbia tu”.
Otranto 15 luglio 2010
Roberto Marra
Un ricordo di Carlo Cego
Di Carlo conservo ricordi estivi e notturni, quasi esclusivamente notturni in una Otranto che ad ora tarda si liberava (allora, oggi dopo mezzanotte arrivano le giovani coppie con passeggino) della ciarliera presenza dei vacanzieri per tornare austera ed accogliente.
Lente bevute contrappuntavano una conversazione leggera nella quale, non so quanto inconsapevolmente, Carlo era assolutamente protagonista, e non solo per l'esperienza di un mondo culturale milanese/cosmopolita di cui apprendevamo attraverso i suoi racconti minimi, bensì perché il filo di questo lento conversare si dipanava su tempi e temi che principalmente lui, con discrezione, dettava.
Lo immaginavo poi di giorno muoversi alla ricerca del soggetto e della luce, soprattutto della giusta luce, da fissare sulla tela; questo gli piaceva di Otranto: la luce vereconda e vibrante, che Carlo interpretava con tocco leggero, preciso, e con esiti sorprendenti.
Chissà perché mentalmente mi figuravo febbrile questa sua ricerca, quasi per contrapposizione alla placida conduzione del passatempo notturno; in verità, a pensarci, credo che egli procedesse con metodo, senza furore, in linea con l'eleganza sua: Carlo Cego era una persona elegante, e non solo per la figura sottile o per i lini e i cotoni chiari che prediligeva d'estate, era elegante il suo tratto, in coerenza al quale colorava nel suo parlare l'affresco complessivo della vita attraverso la composizione di minimalia, true stories, e allo stesso modo nella sua opera ricostruiva l'universo mediante l'esatta trasposizione sulla tela di parti luminose e colorate di esso.
Ci teneva, Carlo, a far trasparire un sorridente disincanto, di chi sa cosa aspettarsi dalle cose e dagli uomini; lo ha tradito proprio la sua opera, che parla di una natura in movimento vibrante di luce e colore, musicale e incantata, quale può essere colta da un animo appassionato.
Otranto 19 luglio 2010
Totò Miggiano
Per Carlo Cego
A sette anni dalla morte, Paola Iacucci ci fa il dono di una mostra di Carlo anche a Otranto.
“Amava dipingere” è scritto sulla lastra di pietra leccese deposta con cura sul cumulo di terra che ne copre i resti nel nostro cimitero, e non c’è visita che si faccia in quel luogo di memorie, senza fermarsi vicino a quella tomba.
E’ vero, amava dipingere; era un pittore, innamorato, come altri, della nostra luce.
Già, come altri: pittori, architetti, editori, poeti, scultori che in quegli anni affollavano Otranto.
Ero allora un giovane sindaco ed ero letteralmente rapito da quelle presenze. Carlo, Vanni, Vittorio, Umberto, Rino apriva alla mia voglia di fare prospettive e scenari di qualità, da declinare in nome della cultura, dell’arte, della tutela del patrimonio ambientale.
Erano, chi più chi meno, la mia bussola nei momenti di difficoltà, quando il dubbio mi tormentava; erano il luogo sicuro in cui ritempravo le energie intellettuali, messe spesso a dura prova dalle false chimere di scorciatoie improbabili.
Grazie alla reciproca curiosità intellettuale e alla comune idea di “bene collettivo” siamo riusciti a scrivere, pur nel microcosmo della nostra realtà, una pagina non banale: l’”etico” e l’”estetico” in continua dialettica, condivisa tra noi, grazie a personaggi speciali, che si sono trovati nel posto giusto al momento giusto.
Ecco, Carlo è stato uno di questi; ha dialogato con noi con la sua pittura, con i suoi racconti, con la sua presenza.
Una pittura rigorosa che non nega, però, il piacere estetico cromatico, condensato, magari, in una sola riga policroma al centro della tela.
Il profumo d’oriente che emanano i suoi lavori coincideva, certo, con la geografia, con gli odori di Otranto. Ma quello che lo ha principalmente intrigato è stata la disponibilità all’ascolto della gente di Otranto, fino alle ore piccole, nei bar, nei locali che frequentava giornalmente.
E si sa: la cultura contemporanea è nata nei bistrot più che nelle università. L’assoluta libertà di un bistrot, sia esso a Parigi o a Roma o, perché no, a Otranto, la libertà di arrivare o di andarsene permette una creatività nel racconto, più dei luoghi deputati spesso ingessati e, appunto, accademici.
Otranto si poneva, allora, come una comunità umana aperta e curiosa dell’ospite, che rispettava ancora come nella antica cultura contadina e marinara. La comunicazione era una regola non scritta, praticata, direi, con devozione.
Anche Carlo, come Carmelo Bene, non venivano per frequentare le spiagge otrantine, ma piuttosto come falene attirate da una luce, e questa luce era la qualità, l’assenza della volgare e alienante cultura televisiva che tutto banalizza.
Vorrei tanto che non si perdesse lo spirito di quegli anni, che si riprendesse il filo di quel pensiero lungo che guardava al futuro. Vorrei che altri intellettuali, altri artisti, in una comunità più partecipe e sensibile, accompagnassero la mia città verso quei traguardi che sognavamo allora in quelle dolci serate d’estate, seduti vicino al bar.
Otranto 13 luglio 2010
Antonio Milo
Di Carlo, quando l’ho conosciuto. È stato un bravo uomo che frequentava la gente che gli stava simpatica. Non attaccava briga e conosceva le persone più interessanti e perbene di Otranto. Questo era quello che faceva Carlo. Di fatto ci trovavamo spesso a cena, lo invitavo dicendo: “Carlo stasera siamo a cena insieme”. Era un buongustaio e un gran mangiatore di peperoni fritti, li mangiava da Garoppo, da Scelba e tante volte ci andavo anche io, perché ero sempre invitato. Facevano i bruscatizzi, si mangiava, sorseggiavamo il vino, era una cosa di famiglia. Conosceva bene Donato Caroppo ed io venivo spesso invitato, perché dovevo tenere banco, parlare, discutere, chiacchierare, per tenere in allegria la tavolata.
Tante, tante sere ci trovavamo al bar, conosceva tutti, ma non dava loro molta importanza. Dava importanza a me e ad Antonello: ti sedevi, bevevi qualcosa, mentre lui sorseggiava il suo “binocolo” (il binocolo è un bicchiere d’acqua e un goccio di wisky) e passava le serate intere così Carlo. Io non faccio il bagno, il sole non lo prendo, e così anche lui che era un uomo notturno, chiaro di carnagione, di notte lavorava e di giorno dormiva. Era l’uomo della notte, le tre, le quattro, faceva mattina. Quando stava bene, in forma, a mezzogiorno veniva qui a lavorare, chiacchierare, a dipingere i suoi quadri. Ma poi è arrivato il momento che ha cominciato a non stare tanto bene. “Carlo smetti di fumare, smetti di bere”, “Ma no, guarda Antoine, io non è che bevo, sorseggio solamente”. Con un bicchiere passava tutta la serata. Stava lì seduto da “Colpo Grosso”, stava lì seduto a chiacchierare e passava la serata così, semplicemente.
Un anno lo vediamo arrivare nel periodo di Pasqua, perché di fatto non stava tanto bene. Veniva a trovarmi dicendo “Sono venuto perché in quest’appartamento non si può stare, perché è troppo freddo, devo fare le scale”. Accendevamo il caminetto, si sedeva vicino al fuoco, prendevamo un’olivetta, qualcosa, un goccio di vino, poi ci mettevamo a cenare, a mangiare insieme e passavamo belle serate tranquille. Poi tante e tante volte lo accompagnavo a casa e lui se ne andava tranquillamente.
Poi nell’ultimo giorno, quello che ricorda anche Paola, l’ultima sera proprio, mi è rimasto impresso, stava lì dentro coricato, disse a Giacinta: ”Voglio vedere quell’ultimo quadro che ho fatto”. Giacinta ha preso il quadro, lui l’ha guardato attentamente e io nella mia coscienza, nella mia amicizia, ho pensato che non poteva andare avanti. Non era in grado di andare avanti perché si vedeva che non era più. Ho pensato: “Vuole vedere l’ultimo suo lavoro”. L’ha guardato, dopo che Giacinta l’ha disteso sul muro - era un metro e dieci, un metro e venti - ha fatto così con la testa e ha detto: “Va bene”.
Era il primo settembre del 2003 e lasciò detto: ”Devo essere seppellito qui a Otranto per gli amici che ho”. È partito, è morto il 17 ed è venuto qui.
A me tutti davano le condoglianze, perché pensavano che lui fosse un familiare, perché ci trattavamo con amicizia e con fratellanza. Con Carlo non c’era nessuna differenza, no, no, tutti belli e tranquilli. Che devo dire altro?
Otranto 6 luglio 2010
Mario Monroy
Ciao Carlo,
è da un po’ di tempo che non ti si vede….e manchi tanto sia a me che a tutti gli amici che hanno avuto il privilegio di conoscerti. Ci manca la tua grande cultura, il tuo sapere, la tua sottile, fantastica ironia e il tuo grande cuore. Ci mancano le tue risate con quel pizzico di sarcasmo buono, ci mancano i tuoi colori, la tua arte ci manca! Mi fermo spesso a contemplare le tue opera e ne rimango affascinato.
Io e Antonello, a volte, per ricambiare, almeno in parte, ciò che tu hai creato per noi, ti allettavamo con i nostri canti che tu apprezzavi. Insomma anche se tu dovessi decidere di non tornare fra noi, desideriamo che tu sappia che per noi è una grossa lacuna, difficile da colmare e … vorrei dirti ancora tante cose, ma…. un nodo mi assale. Ti vogliamo bene Mario
Otranto 14 luglio 2010
Carlo Palma Modoni
Lo incontravo la notte nei locali del centro storico. Si notava perché era alto, distinto con una faccia importante. Era un'artista. Precisamente quello che sembrava: il pittore milanese arrivato nel sud e colpito dalla gente di Otranto e dalla sua luce e dai colori (non a caso era un pittore). Io non lo conoscevo ancora personalmente, ma queste cose in un piccolo paese si sanno. L'ho conosciuto anni dopo, non d'estate, forse era d'inverno e aveva un cappotto lungo, era molto dimagrito. Nel tempo, col suo sarcasmo mi raccontava piccoli episodi del suo mondo di colori, di artisti, e di luce. Dipingeva menhir illuminati dai colori dell'alba, del tramonto, del tabacco. Sul suo tavolo lasciava le bozze con le prove, gli schizzi, tele di cui era orgoglioso e lavori che no, non gli piacevano. Ci tenevo ad avere una sua tela, ma dovevamo decidere il tema, in pratica il colore (era pittura astratta): il giallo, il rosso, il blu. Decidemmo (decise lui) per il mare. Un bel blu, ed anche le dimensioni del quadro (irregolari, perché la tela che gli era rimasta era irregolare). Era già affaticato, e per quanto non si direbbe, quello era anche un lavoro fisico. Si stancava e tossiva, sempre più spesso. Quando mi consegnò la tela non ne era entusiasta, (gli artisti sono sempre insoddisfatti), e dietro la tela scrisse il suo sarcasmo nel titolo dell'opera "Quasi ... mare".
È stato un modo per ricordare dei bei momenti. Spero apprezzerai lo sforzo artistico (il mio), considerando che scrivere non è my cup of tea!
A ben presto
Carlo
Otranto 15 luglio 2010
Franco Palumbo
Il mio ricordo di Carlo Cego è di uno che amava questa città, amava la sua gente e lo si percepiva da ogni cosa che faceva, ad ogni domanda aveva sempre la giusta risposta, era un amante del buon vino e della buona tavola, ed io ne ero molto felice.
Otranto 14 luglio 2010
Pino Piconese
Prima di tutto un grande amico e poi un grande artista: è chiaro. Siamo stati molto vicini per tutto il tempo che è stato ad Otranto e gli volevamo bene anche perché era molto socievole, molto garbato e molto amico di tutti gli otrantini. Chi lo conosceva lo amava e anche a lui faceva piacere conversare con le persone, per vedere come la pensavano e come non la pensavano.
Veniva qui, una parte del tempo la dedicava al lavoro e una parte la dedicava a noi, era un grande intellettuale dal quale abbiamo avuto scuola di vita e di accademia anche se noi siamo gente della strada, gente del popolo. Sì, ci ha formato e ci ha tenuto sempre informati su tutto. Era un piacere stare con lui la sera, specialmente quando, finito di lavorare, si dedicava a noi. Stavamo vicini, bevevamo un bicchiere di vino e chiacchieravamo
E’ stato un grande peccato perderlo prematuramente. Se n’è andato. Gli ultimi giorni che era con noi Paolo e io lo portavamo in giro per la pineta, ma si vedeva che era sofferente. Allora naturalmente dicevamo: “Andiamo Carlo, andiamo a casa, è tardi, dobbiamo mangiare”, era una scusa per andare. Era sofferente, lo vedevamo stanco.
E se ne è andato.
Otranto 9 luglio 2010
Antonello Tenore
Allora, ricordare Carlo per noi è un ricordo vivo, è sempre vivo, è come se lo avessimo con noi tutte le sere, perché era l’amico, perché era una persona capace di colmare i vuoti, i vuoti, anche quelli banali.
Una persona che rispettava tutti, anche coloro che a volte non erano molto perbene, ma lui era splendido, anche in questo. E poi era una persona molto interessata alle cose, alla vita della nostra comunità salentina. Era curioso, voleva sapere tutto, anche del nostro settore, che è quello dell’agricoltura. Lui voleva sapere perché le cose andavano così. Gli piacevano anche i gusti della nostra cucina, mi ricordo che non c’era qualcosa che non assaggiasse, era curioso, voleva provare tutto, anche a causa del modo in cui glielo proponevamo. Lascia un vuoto che è sicuramente incolmabile. Era una persona colta e ci spiegava le cose che non conoscevamo. Le spiegava con la pazienza e io mi ricordo l’ultima… Scherzando negli ultimi anni gli dicevo: “Carlo io pianterò la vigna e tu farai il cantiniere”. Rispondeva: “Va bene, sono d’accordo”, l’idea gli piaceva e poi, poverino, io la vigna l’ho piantata ma abbiamo perduto il cantiniere. Sono purtroppo le cose della vita.
Quindi Carlo è sempre con noi, vivo, nei colori. Per esempio quando vedo il tramonto, quando sto sul terrazzino a guardare un tramonto, il primo pensiero va a lui, va a lui perché era affascinato da questo e penso che anche nella pittura abbia trasmesso un po’ dei nostri colori, quelli del Sud, colori intensi con la loro diversità nell’arco della giornata. Del resto cambiamenti lui li ha anche compresi. Era un vero amico, con lui le serate passavano e non te ne accorgevi. Era così e quindi credo che conserveremo di Carlo un buon ricordo e lo trasmetteremo a chi oggi ci sta intorno e agli amici futuri.
Otranto 6 luglio 2010
Gaetano Tenore
Mi chiedi di raccontarti di Carlo, lo faccio senza parlarti di ricordi, perché lui è sempre con noi. Non sono ricordi, Carlo è con noi come fosse uno che è accanto a te, uno di famiglia. Quando la sera stiamo insieme è ancora vivo. La realtà ci ha dato Carlo è la realtà non è un ricordo. Carlo è presente, lui fa parte della famiglia. Non è un ricordo, Carlo è vivo, in particolare durante l’estate che non sembrava mai arrivata se non arrivava lui. A parte quelle estati della mia giovinezza che tutti abbiamo nella nostra mente. Ricordo quel periodo bellissimo quando si era formato intorno a noi otrantini il movimento di artisti che arricchivano Otranto con la loro presenza. Carlo fra tutti è stato il nostro libro aperto. Lui ci ha maggiormente fatto capire la bellezza dell’arte vista attraverso la nostra semplicità.
Abbiamo passato notti al chiaro di luna otrantina a parlare di tutto, sempre da parte nostra con l’avidità di sapere e non ci accorgevamo del tempo che passava. Poi che dire, che a noi è mancato anche a tavola. Era una festa tutte le sere averlo con noi e assaporare tutti insieme le cose buone che Antonello portava dalla campagna. Anche lì si facevano dei confronti tra passato e futuro e lui aveva una spiegazione per tutto.
Otranto 15 luglio 2010
Francesco Vetruccio
A Carlo
Una presenza discreta e allo stesso tempo importante. Una persona che definire amica, gentile, non sembra sufficientemente illustrarne l’essenza. Una battuta rara e penetrante che lasciava a volte senza fiato ma in nessun caso offensiva.
Ricordo il mio primo incontro con Carlo al Castello Aragonese, lavorava alle sue sottili e colorate “righe” che sembrava venissero dal nulla e tendessero all’infinito. Pochissime parole scambiate tra noi, in perfetta sintonia con il suo spontaneo e vero personaggio: mai un atteggiarsi a nulla, mai una parola fuori da una composta ironia. Anche con me che incontrava per la prima volta e che, curioso, chiedeva inutile spiegazioni su quello che pian piano Carlo creava con il suo pennello.
Ha fatto parte del nostro più intimo panorama Otrantino Carlo, sembrava quasi che la stagione non arrivasse, finché all’imbrunire di una giornata piena di luce e tramontana non si vedeva Carlo seduto al tavolino del solito bar col suo “binocolo” che sfidava la sera e la notte, e intorno a lui si raccoglieva gente diversa ma interessante e interessata a lui, alle sue poche parole, al suo sarcasmo gentile che colpiva senza far male, suscitando sorrisi e apprezzamenti che ti facevano tirar tardi, e rincasando pensare che il tutto non era certo stato un perder tempo.
Non ha mai cambiato atteggiamento Carlo, nemmeno nel momento della sua prova più difficile, e anche a me abituato per mestiere, ha saputo offrire nell’estrema sofferenza una dignità venata da una malinconia infinita e allo stesso tempo di una sottile ironia che forse avrà illuso anche la Morte.
Ciao Carlo, ti piaceva dipingere ma ancor più vivere come hai vissuto.
Francesco
Otranto15 luglio 2010